Gli ultimi numeri dell’Inps sono eloquenti: le persone andate in pensione nei primi nove mesi dell’anno, sia nel pubblico che nel privato, sono diminuite su base annua del 35,5%, attestandosi a 199.555.
Il dato risente dell’effetto della riforma Sacconi, precedente alla riforma Fornero di fine 2011, che costringe i lavoratori dipendenti a percepire il primo assegno pensionistico 12 mesi dopo il raggiungimento dei requisiti, mentre per gli autonomi il divario sale a 18 mesi.
Influisce anche la riforma Damiano, con il cosiddetto scalino, che aveva portato da 59 a 60 anni l’età minima per andare in pensione con almeno 36 anni di contributi.
In particolare, nel privato sono andati in pensione 140.616 lavoratori, per un crollo del 37,4%, mentre nel pubblico si sono ritirati dal lavoro altri 58.939, per un calo contenuto al 22,2%.
Mediamente, l’età dei pensionati del settore privato sale da 59,3 a 60,3 anni, mentre nel pubblico si passa da 59,8 a 61,2 anni. Il dato è quasi uguale a quello della “virtuosa” Germania, dove si va mediamente in pensione a 61,7 anni, anche se il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, ritiene che l’Italia potrebbe superare i tedeschi entro l’anno prossimo, a garanzia del sistema previdenziale più solido nella UE, entro il 2020.
Unico dato realmente ancora distante da Berlino è il cosiddetto tasso di sostituzione, ossia il rapporto tra la prima pensione percepita e l’ultimo stipendio. In Italia, esso è all’80%, ma per lo più per le vecchie pensioni erogate con il sistema retributivo, mentre il Germania si attesta al 58,4% e in Francia al 60,8%.
Ricordiamo, infine, che da quest’anno l’Inps assorbe anche i pensionati del settore pubblico, che prima facevano riferimento all’ex Inpdap.