In questi mesi la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta. Nel picco della crisi 2008-2009 avevamo dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri, guadagnandoci una good reputatione internazionale. Ma ora siamo fragili a causa di una crisi che viene dal non governo della finanza globalizzata e che si esprime sul piano interno con un sentimento di stanchezza collettiva e di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico. Siamo isolati, perché restiamo fuori dai grandi processi internazionali, rispetto all’Unione europea, alle alleanze occidentali, ai mutamenti in corso nel vicino Nord Africa, ai rampanti free rider dell’economia mondiale. E siamo eterodiretti, vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda. I nostri antichi punti di forza, la capacità di adattamento e i processi spontanei di autoregolazione nel welfare, nei consumi, nelle strategie d’impresa, non riescono più a funzionare. «Viviamo esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva , basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc., ed alla fine ci associamo alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini».
Era prevedibile che la verticalizzazione e la personalizzazione del potere coltivate negli ultimi vent’anni avrebbero impoverito nel tempo la nostra forza di governo. Si è così creato un deficit politico che ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario. «Ognuno per sé e Francoforte per tutti» sembra il messaggio corrente. «Ma una società complessa come la nostra non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Oggi la dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita. È illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. «Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà».
Puoi votare l'articolo anche qui, gli articoli precedenti qui.