Unicredit e Intesa hanno comunicato di avere ceduto le loro partecipazioni in London Stock Exchange, la società inglese che controlla Borsa Italiana. In particolare, Piazza Cordusio ha venduto 16,6 milioni di azioni, pari al 6,1% del capitale, mentre Intesa ha ceduto 14,5 milioni di titoli, corrispondenti a una quota del 5,4%. Il titolo è stato ceduto a un prezzo di 960 pence, per cui complessivamente la prima ha ricavato 197,6 milioni, la seconda 172,5 milioni di euro.
Quanto all’utile netto consolidato delle operazioni, per Unicredit ammonta a 120 milioni, per Intesa a 105 milioni. Morgan Stanley ha funto da bookrunner, mentre Banca IMI, Unicredit Bank AG e London Branch da passive joint-bookrunner.
Fatto sta che dopo queste cessioni, le azioni in mano a soci italiani sono scese dal 15% a un miserrimo 3%, che resta ancora nelle mani di Banca Sella, Finnat ed Emittente Titoli.
Gli azionisti maggiori in Lse sono gli arabi, con la Borsa di Dubai che controlla il 20,6% e il fondo sovrano qatarino, Qatar Investment Authority, che possiede un altro 15%.
E pensare che quando nel 2007 Borsa Italiana fu rilevata da Lse, gli azionisti italiani erano i primi soci, con una quota complessiva del 28%. Ma non c’è stata la capacità di fare un gioco di squadra per fare pesare la propria presenza e la crisi finanziaria ha fatto il resto.
Fa molto riflettere che oggi la società che controlla Piazza Affari sia partecipata da italiani solo per il 3% e che grandi marchi del made in Italy, come Prada, preferiscano quotarsi ad Hong Kong, piuttosto che a Milano. E un altro marchio tricolore, Benetton, ha lanciato un’Opa sulle sue azioni di minoranza, al fine di uscire da Piazza Affari, attraverso il “delisting”.
A Milano la crisi sembra proprio nera. La borsa italiana non solo non attira capitali, ma questi fuggono dalla stessa Italia. E già nel 2011, la capitalizzazione complessiva è scesa di quasi un quarto.
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